La manifattura italiana è più solida. Ma ci sono troppe imprese fragili

Scritto il 23/11/2025
da Gian Maria De Francesco

Il rafforzamento patrimoniale ha raggiunto i livelli di Germania e Spagna. Restano i divari interni

Negli ultimi quindici anni le imprese manifatturiere hanno avviato un processo di rafforzamento patrimoniale senza precedenti: la quota di capitale proprio ha quasi raggiunto i livelli tedeschi, superando Francia e Spagna. È quanto emerge dal capitolo sulla capacità finanziaria della nuova pubblicazione del Centro Studi Confindustria (CsC), Manifattura in trasformazione: rimarrà ancora competitiva?, che sarà presentata mercoledì e che il Giornale è in grado di anticipare. La quota di capitale proprio sul totale del passivo è aumentata dal 34,5% nel 2007 al 47,5% nel 2019. Dopo la temporanea inversione del 2020, determinata dalle difficoltà connesse alla pandemia, le imprese industriali italiane sono tornate rapidamente sul sentiero del rafforzamento patrimoniale: nel 2023 la quota di capitale proprio ha raggiunto il 48,9%, riducendo il divario con la Germania a soli -2,2 punti percentuali e collocando la manifattura italiana su livelli di patrimonializzazione analoghi alla Spagna e superiori alla Francia. "Siamo arrivati praticamente accanto alla Germania", osserva Alessandro Fontana, direttore del CsC, ricordando come nel 2007 l'industria italiana fosse ultima tra i grandi Paesi europei. Merito anche dell'Ace (aiuto alla crescita economica), lo sgravio sulla patrimonializzazione introdotto nel 2012 e abolito nel 2024.

Parallelamente, infatti, si è ridotto il ricorso al credito bancario: il rapporto tra stock di prestiti e valore aggiunto manifatturiero è sceso dal picco del 100% del 2011 al 56% nel 2024. La quota di prestiti bancari sul totale del passivo è scesa in Italia dal 19,5% nel 2007 al 14,2% nel 2019, fino al 12,3% nel 2023. "Siamo molto meno dipendenti dalle banche", sottolinea Fontana, evidenziando come questo alleggerimento abbia contribuito alla resilienza del settore.

La solidità finanziaria ha effetti diretti sulla competitività. Le imprese che presentano vincoli finanziari mostrano una produttività inferiore tra il 5 e il 10%. "Se hai meno capitale a disposizione, fai più fatica a investire e sei meno produttivo", sintetizza Fontana. È un nodo ben noto agli economisti e che il rapporto quantifica con chiarezza, mostrando che una maggiore patrimonializzazione permette di sostenere più investimenti in tecnologie, intangibili e innovazione.

Ma non tutto è positivo. L'elemento più delicato che emerge dal rapporto è l'aumento della dispersione tra imprese: non tutte si sono rafforzate allo stesso modo. "Il quadro aggregato è molto buono - ammette Fontana - ma nel dettaglio vedi che ci sono imprese molto forti e altre che arrancano". E questo avviene in tutte le classi dimensionali: micro, piccole, medie e grandi. "In ogni gruppo ci sono campioni e imprese fragili", spiega ricordando che le performance eccellenti di alcune distorcono le medie.

La conseguenza è un sistema robusto ma non omogeneo. "Quelle meno capitalizzate sono le prime a rischiare di uscire dal mercato se la stagnazione dovesse protrarsi", avverte Fontana. Ed è questo il punto critico: in un contesto macroeconomico che il direttore del CsC definisce "da stagnazione, per essere ottimisti", la capacità finanziaria può fare la differenza tra resistere e cedere. Portare tutti "al livello alto" è la sfida che la confederazione guidata da Emanuele Orsini mette sul tavolo, perché la competitività del sistema Paese non può reggersi solo sui suoi campioni.