Nello spogliatoio, da solo per un istante, Vince Carter fissa il piccolo monitor portato da un collaboratore. Per fortuna qualcuno ha registrato tutto da bordocampo, servendosi di una piccola videocamera. Spinge sul tasto “play”, sgrana gli occhi lui stesso, torna indietro, si riguarda l'intera scena. Per sette volte. Sette volte lo stesso lampo, lo stesso salto che sembra negare ogni legge di gravità e di buon senso. Attorno, i compagni urlano ancora, incapaci di credere a ciò che hanno appena visto nell’Arena di Sydney. Lui sorride, quasi intimidito dalla propria stessa audacia. È il 25 settembre del 2000, alle Olimpiadi si fronteggiano Usa e Francia e la storia ha appena cambiato forma: ha preso la traiettoria di un corpo che vola sopra un gigante di 218 centimetri.
La “Dunk de la mort” - la schiacciata della morte - non nasce su quel parquet, ma nella furia con cui Vince Carter affronta quell’Olimpiade alla quale, per paradosso, non sarebbe nemmeno dovuto essere. Rudy Tomjanovich, il ct del Team USA, gli aveva preferito Ray Allen, salvo poi richiamare Carter quando l’infortunio di Tom Gugliotta lascia un vuoto improvviso nel roster. Carter, che a Toronto hanno soprannominato “Air Canada” per quella sua capacità di decollare verso canestro, sente la puntura dell’esclusione mancata. L’urgenza di dimostrare che il posto in quella squadra non è un regalo, ma un atto dovuto. A Sydney giocherà come un uomo che non concede tregua né agli avversari né a se stesso: 15 punti di media, 25 schiacciate su 41 canestri. Una proporzione che dice molto più di qualsiasi discorso.
E poi, quel pezzo unico.
L’azione nasce da un passaggio svogliato, intercettato dopo due errori americani, quasi un contropiede nato di rimbalzo. La Francia è sbilanciata, ma non indifesa: davanti a Carter si erge Frederic Weis, un pilastro di 218 centimetri che i Knicks hanno scelto al numero 15 del draft e che non ha mai messo piede in NBA per una somma di guai fisici. Non c’è spazio per la rincorsa, non c’è tempo per preparare il gesto. Carter semplicemente procede e poi si arresta all’ultima tacca dell’area piccola. Due tempi rapidi, quindi sale. Weis non si muove, resta lì, impalato, forse convinto che il semplice fatto di occupare quello spazio con la sua mole basti. Ma Carter continua a salire. Appoggia una mano sulla spalla del francese come fosse un gradino, e lo supera. Letteralmente. Dall’altra parte del corpo di Weis lo aspetta il ferro, che accoglie la schiacciata più audace e pericolosa di sempre. Nel momento di massima elevazione, il suo ginocchio si trova all'altezza della testa di Weis. Gli schiaccia letteralmente in faccia.
È l’anno zero della viralità prima della viralità. Non ci sono YouTube, Facebook o Twitter, non ci sono i telefonini pronti a inseguire qualsiasi prodezza. Il video circola su una telecamera amatoriale, poi passa di mano in mano come un cimelio. Proprio quel filmato Carter lo riguarderà in spogliatoio, ripetutamente, con lo stesso stupore dei compagni: “Hai visto che cosa hai fatto?”, gli chiedono a ripetizione. Lui non risponde: lascia che siano le immagini a parlare. Non saprebbe cosa aggiungere.
Anche perché negli anni successivi proverà più volte a ricreare quel momento, chiamando sotto il ferro i compagni più alti delle franchige in cui gioca. Ogni tentativo finisce allo stesso modo: inciampa, cade, si impiglia. Lo dirà lui stesso, quasi rassegnato: “Non ci sono mai più riuscito”.
Frederic Weis, oggi lontano dai campi, ricorda quel giorno con una tenerezza disarmante. “Avevo chiuso gli occhi. Non sapevo cosa fosse successo. Ricordo solo Sonko in panchina che festeggiava come se avessi schiacciato io. Ma sono stato io a prenderla in faccia. Quel giorno ho capito che gli uomini possono volare”. Ci scherza sopra, ma confessa anche un dettaglio che pochi conoscono: in finale Carter proverà di nuovo a saltarlo. Weis lo ferma con un fallo, Carter si gira, gli sorride. Una piccola tregua fra chi vola e chi resta a terra.
Vent’anni dopo quella notte, quell’istante continua a vivere come un rito fondativo. E coincide, simbolicamente, con l’anno in cui Carter aveva già trasformato la schiacciata in un linguaggio artistico. Lo aveva fatto al Dunk Contest dell’All-Star Weekend 2000, vinto con una serie di esecuzioni che ancora oggi vengono considerate la vetta assoluta della specialità. Ma a Sydney, sopra Weis, non c’è solo la grandezza del gesto tecnico e atletico. C’è una sfida alla fisica, alla logica, all’idea stessa di ciò che è possibile in un campo da basket.
Lui quella sera la riguarda sette volte. Il mondo sta ancora mandando in replay.

