Una battaglia giudiziaria iniziata oltre trent’anni fa, un ricorso che sembrava destinato a garantire la pensione di reversibilità a una figlia inabile, e un colpo di scena finale che invece rafforza l’Inps. È la trama di una vicenda che ha attraversato tribunali, corti d’appello e infine la Cassazione, dove pochi giorni fa l’istituto previdenziale ha ottenuto una vittoria pesantissima.
Il caso
Il caso ruotava intorno a una domanda presentata nel 2009 per la pensione del padre, deceduto nel 1990: quasi vent’anni di ritardo che hanno trasformato la questione in un terreno minato di prescrizioni, eccezioni e cavilli tecnici. Alla fine, la Suprema Corte non solo ha dato ragione all’Inps, ma ha anche fissato un principio che rischia di cambiare le regole del gioco per migliaia di cittadini: d’ora in poi l’ente potrà eccepire la prescrizione senza dover più specificare i termini, lasciando al giudice il compito di calcolare quali ratei spettano davvero e quali no.
La vicenda e le prime sentenze
La Corte d’appello di Catanzaro aveva confermato la sentenza di primo grado che riconosceva il diritto della richiedente, ritenendo dimostrati i requisiti di totale inabilità, vivenza a carico e limite reddituale. I giudici calabresi avevano respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Inps, giudicandola generica perché priva dell’indicazione puntuale del dies a quo, ossia il giorno da cui far decorrere i termini. In appello, l’istituto previdenziale aveva sostenuto l’applicabilità del termine quinquennale introdotto dal d.l. 98/2011, e non quello decennale, chiedendo di escludere tutti i ratei maturati tra il 1991 e il 1999. Ma la Corte aveva confermato la spettanza della prestazione e compensato le spese, respingendo le tesi dell’ente.
Il ricorso in Cassazione
L’Inps non si è fermato e ha portato la questione davanti alla Suprema Corte, affidandosi a due motivi di ricorso: la violazione degli articoli 2935 c.c. e 112 c.p.c. in materia di prescrizione e l’omessa pronuncia sulla decorrenza degli accessori di legge (interessi e rivalutazioni). La controparte, G.S., ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità per carenza di specificità e ribadendo il diritto a ottenere la prestazione fin dal mese successivo al decesso del padre. La causa è stata trattata e decisa all’adunanza camerale del 25 marzo 2025.
Il verdetto
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Inps, cassando la sentenza di appello e rinviando nuovamente alla Corte di Catanzaro, in diversa composizione. Sul primo motivo, gli Ermellini hanno chiarito che la mancata indicazione del dies a quo non rende generica l’eccezione di prescrizione: una volta sollevata la questione, spetta infatti al giudice individuare d’ufficio il momento iniziale della decorrenza, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti. Non è quindi necessario che l’Inps specifichi il giorno da cui far decorrere i termini: basta che eccepisca l’intervenuta prescrizione. Sul secondo motivo, la Corte ha accolto la doglianza dell’ente, stabilendo che la decorrenza degli accessori (interessi e rivalutazioni) deve partire dalla domanda amministrativa, che vale come messa in mora, e non da epoche antecedenti.
Le implicazioni pratiche
Il principio sancito dalla Cassazione cambia il quadro. La prescrizione della reversibilità resta fissata in dieci anni, interrotta dalla domanda amministrativa, dall’avvio del giudizio o da altri atti notificati. Ma l’Inps, da ora, potrà eccepire la prescrizione senza dover calcolare termini e scadenze: sarà il giudice a stabilire quali ratei sono dovuti e quali invece prescritti. Questo significa che i cittadini dovranno presentare richieste all’Inps in modo molto più puntuale e documentato, dimostrando con precisione tutti gli atti che hanno interrotto la prescrizione. Una strada certamente più complessa per chi si ritrova a reclamare prestazioni dopo molti anni.
Una decisione destinata a pesare
La sentenza, che trae origine dal decesso di un pensionato nel 1990 e si conclude 35 anni dopo, segna un precedente destinato a fare scuola. Non solo per la pensione di reversibilità, ma per tutte le prestazioni previdenziali soggette a prescrizione. Il messaggio che arriva dalla Cassazione è chiaro: la prescrizione non è un dettaglio burocratico, ma un limite sostanziale che può cancellare il diritto. Per i cittadini, la lezione è altrettanto netta: chi intende avanzare richieste deve agire tempestivamente e allegare con precisione tutta la documentazione utile, perché il tempo – in materia di previdenza – non perdona.