L’ultimo pugno di Petrosyan, il guerriero della kickboxing

Scritto il 22/11/2025
da Sergio Arcobelli

39 anni, 110 incontri vinti e 21 corone mondiali: "Mi paragonano a Pelè e Maradona..."

Se nel calcio ancora si discute su chi sia stato più grande tra Pelè e Maradona, nel mondo della kickboxing non vi è alcun dubbio: è Giorgio Petrosyan. «Ho messo davanti a me stesso questo sport per diventare il numero uno», dice il re delle arti marziali che una volta era armeno e ora, ribadisce con orgoglio, «sono al 100% italiano». Ma ora è tempo di dire basta a gomitate, calci e ginocchiate in faccia (per questo ha il naso storto da pugile): a 39 anni, dopo aver vinto 110 incontri e 21 cinture mondiali nella categoria dei 70 kg, è pronto a lasciare la corona: stasera, infatti, salirà sul ring dell’Allianz Cloud di Milano per The Last Fight. «Mi fa piacere quando la gente mi paragona a Pelè o Maradona. Io non mi sono mai fermato, non mi sono mai goduto le vittorie.
La mia felicità erano solo i quindici secondi quando l’arbitro alzava la mia mano. Poi pensavo subito all’incontro successivo. Questa è stata la mia forza per andare avanti e continuare a vincere».
Il guerriero Petrosyan viene da lontano, da quella Erevan che lasciò quando aveva 13 anni, insieme al padre e a un fratello, nascondendosi dentro un tir che li depositò a Milano.
Fuggivano dalle violenze, perché nell’Armenia insanguinata dalla guerra con l’Azerbaigian i soldati potevano bussare a casa in qualunque momento per reclutare ragazzi da mandare al fronte. Una volta arrivato alla stazione Centrale, dove si ammalò, 40 di febbre, non avevano nulla da mangiare e il padre era terrorizzato di perderlo. La Caritas li aiutò e trovò una dimora per loro a Gorizia, una famiglia li accolse nella casa dei guardiani della loro azienda e così arrivò anche l’altra parte dei Petrosyan, mamma, sorella ed il fratello minore Armen, da allora sempre al suo fianco. Il demone della kickboxing, scoperta in tv grazie ai calci di Van Damme, si era impossessato di lui a 10 anni. «Diventerò il numero uno», profetizzava. Ed è finita così, con il mondo, letteralmente, ai suoi piedi. Sempre sulle note dell’Inno di Mameli: «L’Italia mi ha dato tanto, sono arrivato a Milano e dormivo in stazione. E adesso sono qui nella mia città a fare il mio ultimo incontro davanti a 5.000 tifosi. Questo dice tutto».
Ma ciò che ha realmente reso unico Petrosyan è stata la capacità di neutralizzare gli avversari, senza mai perdere il controllo delle emozioni, diventando un simbolo della perfezione tecnica. Ogni colpo era studiato e da lì il soprannome di “The Doctor”, non solo perché è finito spesso dal chirurgo: «Sulla mano sinistra ho undici interventi», racconta.
Soprattutto, Petrosyan è stato una fonte di ispirazione per molte persone che ha tolto dalla strada e portato in palestra.
«Io lascio un'eredità ai giovani, spero che i ragazzi possano difendere il tricolore come l’ho fatto io in questi 24 anni portando in alto la bandiera in tutto il mondo». Un’era si chiuderà stasera contro il portoghese Sousa, ma la leggenda resta.