Ornella Vanoni è morta con la stessa discrezione con cui talvolta attraversava il palcoscenico, specie quando era alle prime armi: una presenza lieve, ma impossibile da ignorare. Milano si svegliata è con un silenzio anomalo, come quando una voce che hai sentito per una vita smette all'improvviso di vibrare nell'aria. A 91 anni, la Vanoni lascia un vuoto che non è di maniera: è concreto, fisico, sedimentato in decenni di musica, teatro, collaborazioni, e in quel modo unico di stare al mondo, sempre un passo di lato, come chi preferisce la verità alla posa, nonostante il successo. Capitava di incontrarla al bar proprio davanti a una famosa clinica milanese, offrirle uno champagne, di cui era grande amante come Oriana Fallaci, e di sentirsi rispondere, con un sorriso: "Eh, magari potessi, ma lei è un galantuomo". Era la Vanoni, e proprio con la voce della Vanoni!
Figlia di ottima famiglia, era nata a Milano nel 1934. La sua carriera era cominciata fuori dagli schemi. Le canzoni della mala (195-1959) affidate da Giorgio Strehler a una ragazza elegante e perbene, sono un cortocircuito che solo lei poteva reggere: temi duri, testi raffinati. E poi la voce, già indescrivibile. Scava con crudeltà e dolcezza. Abbatte ogni resistenza. Era evidente, allora, la sua capacità di incarnare gli opposti: la fragilità che graffia, la leggerezza che pesa più del dramma. Strehler e Vanoni erano una coppia anche nella vita. Per Milano è uno scandalo. Lei era molto più giovane, ventenne, del Maestro, che era pure sposato.
Gli anni Sessanta e Settanta la consacrano interprete di punta. Escono canzoni che sono parte dell'arredo emotivo di questo Paese: Senza fine, La musica è finita, L'appuntamento. Quest'ultima, poi, ha fatto il giro del mondo grazie a un film hollywoodiano, confermando ciò che i fan già sapevano: quella voce aveva un potere narrativo che non conosceva confini. Bastava un'inflessione, un sospiro calibrato al millimetro. Vanoni cercava la verità e aveva un'arma segreta, oddio non tanto da non rivelarla a chi chiedeva lumi sulla sua arte: "Restare sempre in leggero, quasi impercettibile, ritardo sulla musica. Quell'attimo imponderabile ti prende all'amo".
Negli anni, mentre molti colleghi inseguivano prima mode e poi algoritmi, lei ha scelto la fedeltà a se stessa. La bossa nova le calzava a pennello: morbida, elegante, senza ostentazione. Ci resta un capolavoro, considerato tale non solo in Italia: La voglia la pazzia l'incoscienza l'allegria con Vinicius De Moraes e Toquino. Le collaborazioni Sergio Endrigo, Mario Lavezzi, i New Trolls, Pacifico raccontano un pezzo di storia musicale che oggi sembra lontano: la canzone era anche artigianato, non solo produzione industriale. Il sodalizio più famoso, perché fu anche un amore disperato, è quello, intramontabile, con Gino Paoli.
E poi c'era la sua figura pubblica: mai banale. Ironica e autoironica, insofferente alle sciocchezze, allergica alla retorica. Perfino nelle interviste sapeva produrre quella miscela di eleganza e sfrontatezza che la rendeva irresistibile. La sua morte accelera la fine di una certa idea di artista: non un prodotto, non un marchio, ma un essere umano che trasforma la propria esperienza in note. L'Italia perde una voce frutto irripetibile di un'epoca e di un carattere. Però. Forse non è così. In fondo Ornella Vanoni rimane con noi perché le grandi interpreti non muoiono mai: entrano nella memoria collettiva, che è un palcoscenico più grande di qualunque teatro. I critici cercano sempre etichette, ma alla Vanoni scivolavano addosso. Non era pop, non era jazz, non era musica da cantautore: era la Vanoni.